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sabato 17 dicembre 2022

Polizza assicurativa index linked - le informazioni della banca devono essere chiare e semplici

L'investimento in prodotti finanziari complessi necessita di una conoscenza approfondita da parte di colui che intende trarre profitto dall'intermediazione finanziaria.

Non tutti i consumatori, in particolare i piccoli consumatori, hanno una approfondita conoscenza, ad esempio, della polizza assicurativa index linked, la quale non è un prodotto assicurativo, bensì una vera e propria forma di investimento.

In quest'ottica, il ruolo dell'intermediario finanziario è molto delicato, nel senso che è onere della banca quello di  informare il cliente in merito alla tipologia del prodotto finanziario che sta proponendo, specificando la natura, le caratteristiche ed i rischi collegati a tale investimento.

L'adempimento dell'obbligo informativo deve avvenire in modo trasparente, completo e chiaro, in particolare laddove la proposta di acquisto abbia ad oggetto una polizza assicurativa indicizzata, ossia un prodotto che all'apparenza potrebbe rientrare nella generica definizione di "polizza assicurativa", ma che in realtà consiste in un vero e proprio strumento finanziario.

E' importante, come osservato dalla Corte di Cassazione nel provvedimento che potete leggere di seguito, che le diverse informazioni fornite dalla banca al cliente siano univoche e chiare, non portando il contraente debole in una situazione di disorientamento.

Nella vicenda trattata dal giudice di legittimità, la banca aveva consegnato alcuni documenti (brochure informativa ed alcuni estratti conto) dai quali emergeva che il prodotto finanziario avrebbe garantito il rimborso integrale del capitale, mentre nel prospetto informativo illustrato, tra i rischi di investimento, la possibilità di non poter recuperare tutto l'investimento iniziale.

E l'ambiguità delle informazioni fornite al cliente, e il consequenziale rischio di confusione nel quale quest'ultimo può essere tratto in inganno, deve essere evitato dall'intermediario finanziario, il quale deve tenere una condotta in buona fede rendendo noti i vari rischi connessi all'investimento in uno strumento finanziario complesso.

Giova ricordare che detto dovere informativo deve essere adempiuto dalla banca nella fase precontrattuale, ossia al momento della vendita della polizza indicizzata, proprio con il fine di comunicare al cliente tutte le informazioni necessarie che consentano a questi ultimi di essere "sempre adeguatamente informati" (art. 21 TUF).

La Corte di Cassazione, confermando la pronuncia di merito, ha chiarito che il giudice aveva correttamente accertato che nella brochure informativa il capitale veniva "garantito alla scadenza mediante il rimborso del 100%", mentre il fascicolo informativo non includeva tale garanzia, creando un contrasto informativo, presupposto della violazione delle norme di condotta. 

Osserva la Cassazione che " La violazione rilevante ai fini dell'obbligo restitutorio del capitale versato non è dunque quella della mancata consegna del fascicolo informativo e del prospetto esemplificativo, di  cui trattano i motivi del ricorso, ma la "contraddittorietà" fra l'informativa resa dall'intermediario e quanto risultante dalla brochure informativa e dagli estratti conto.".

Il carattere fuorviante dell'informativa ha disorientato il cliente, non aiutandolo nella scelta dell'investimento nella polizza index linked, con conseguente diritto dello stesso a vedersi restituito il capitale investito.

Cass. Sez. III^ Civ. ordinanza n. 23073/2022

lunedì 5 dicembre 2022

Manipolazione Euribor - nullità parziale - determinazione degli interessi

Verso la fine del 2013, la Commissione dell'Unione europea pubblicò una clamorosa decisione con la quale venne reso pubblico che alcuni gruppi bancari (tra i quali Barclays, Deutsche Bank, Rbs e Société Générale) avevano manipolato il tasso interbancario Euribor ((acronimo di EURo Inter Bank Offered Rate), alterando i tassi di interesse applicato ai mutui a tasso variabile tra il 2005 e il 2008.

Avevamo già segnalato la vicenda, tempo addietro, suggerendo, a coloro che avevano sottoscritto un mutuo a tasso variabile nel periodo 2005/2008 di voler contestare alla banca la illegittima applicazione del tasso Euribor (leggi qui).

La vicenda è stata trattata dalla Corte di Appello di Cagliari Sezione di Sassari con la recente sentenza n. 260/2022 (Pres. Rel. Spanu), ove il giudice ha dichiarato la nullità della clausola di interessi del mutuo indicizzato all’Euribor, facendo riferimento alla manipolazione denunciata nel 2013.

Il provvedimento della corte di secondo grado sarda è meritevole di segnalazione, come evidenziato da più parti, per aver affermato seguente principio:

La nullità del tasso Euribor nel periodo settembre 2005/maggio 2008 per violazione dell’art. 101 Trattato Ce e dell’art. 2 legge antitrust è quindi utilmente invocabile da parte del cliente di un finanziamento bancario indicizzato sull’Euribor, legittimato ad ottenere il ripristino delle condizioni legali anche se il soggetto mutuante non abbia preso parte all’intesa vietata.

Invero, la nullità dell’intesa antitrust a monte – recepita per determinare il tasso nel contratto a valle – comporta la nullità per violazione di norme imperative ex art. 1418 c.c. della convenzione di interessi e la conseguente applicazione del tasso legale in luogo del tasso contrattuale parametrato all’Euribor.”.

Secondo la Corte di Appello è del tutto irrilevante che la banca non abbia partecipato al cartello che ha posto in essere la condotta anticoncorrenziale, in quanto ha comunque tratto giovamento dalla violazione delle norme anticoncorrenziali, violando una norma imperativa.

Nè può assumere alcuna importanza che il contratto de quo sia stato stipulato in periodo antecedente all'accertata condotta anticoncorrenziale, per le ragioni affermate dalle Sezioni Unite della Cassazione (30 dicembre 2021, n. 41994 – Pres. Raimondi, Rel. Valitutti) in materia di fideiussioni omnibus conformi al modello ABI.

Quale conseguenza? beh, appare chiaro che gli interessi del mutuo relativi al periodo contestato andranno calcolati sulla base del tasso legale ex art. 1284 c.c., con evidente vantaggio per il consumatore.

Per maggiori informazioni, scrivici a info@consumatoreinformato.it

Qui di seguito, la sentenza n. 260/2022 della Corte di Appello di Cagliari - Sezione distaccata di Sassari.

mercoledì 23 novembre 2022

Mutuo Banco Popolare - nulla la clausola floor: chiedete il rimborso dei maggiori interessi pagati

E' vessatoria la clausola "floor" inserita nei contratti di mutuo a tasso variabile sottoscritti tra il Banco Popolare BPM e i suoi clienti negli anni, tant'è che questi ultimi possono rivolgersi alla banca per chiedere il rimborso dei maggiori interessi versati negli anni.

Questo è, in sintesi, il principio emerso dalla sentenza n. 2836/2022 con il quale la Corte di Appello di Milano ha ritenuto di stabilire il carattere abusivo della clausola contrattuale che ha, negli anni precedenti, limitato il pagamento degli interessi in favore della banca nei mutui.


- mutuo con clausola pavimento (floor)

I mutui a tasso variabile prevedono, come noto per chi li ha sottoscritti, il calcolo degli interessi applicati dalla banca in modo variabile, in quanto il tasso di interesse è "legato" alla variazione dell'Euribor (acronimo di EURo Inter Bank Offered Rate, tasso interbancario di offerta in euro mensile - bimestrale - semestrale - annuale) cioè il tasso di interesse medio delle transazioni finanziarie in euro tra le principali banche europee e che viene aggiornato con cadenza giornaliera.

Il tasso di interesse viene collegato all'Euribor con applicazione di un ulteriore tasso (spread) riconosciuto in favore dell'istituto di credito e quindi se l'Eur è di 1% e lo spread è di 2%, il tasso di interesse complessivo è del 3%. Questo tasso varia a seconda della variazione dell'Euribor.

I mutui a tasso variabile fatti sottoscrivere da Banco BPM prevedono, come per altre banche, l'applicazione di una clausola pavimento (floor), la quale prevede che se il tasso di interesse scende sotto una determinata percentuale, la banca continuerà ad applicare il tasso di interesse.

Nel nostro caso, se la clausola floor prevede un tasso minimo pari al 2%, se l'Euribor scende sotto lo zero, il tasso di interesse applicato sarà comunque pari al 2%.

Su questo punto è intervenuta la Corte di Appello di Milano.


- Corte di Appello di Milano (sentenza n. 2836/2022): non è valida la clausola floor

La Corte di Appello di Milano ha considerato vessatoria questo tipo di clausola, laddove non sia prevista una equivalente clausola che limiti il rialzo dei tassi in caso di aumento dell'Euribor (cosiddetta clausola tetto o cap).

Viene creato, nel caso di specie, un disequilibrio nel rapporto tra le parti, ove il professionista acquisisce un evidente vantaggio verso il contraente debole, pre determinando un livello minimo di interessi dovuti dal cliente.

La carenza di equilibrio del contratto di mutuo incide, come correttamente osservato dal giudice, sull'insieme degli obblighi e diritti costituiti con il contratto, introducendo limiti per una sola parte, in spregio a quanto previsto ex artt. 33 e seguenti del Codice del Consumo.

La clausola floor può risultare valida, solo se sia oggetto di specifica sottoscrizione da parte del cliente nel contratto di mutuo sottoscritto avanti al notaio, ma in molte circostanze detta clausola nemmeno compare tra le condizioni contrattuali del mutuo, emergendo solo nella parte finanziaria del contratto.

Quale conseguenza? la nullità della clausola floor legittima i consumatori a richiedere alla banca i maggiori interessi versati negli anni 2015 - 2022, ossia il periodo nel quale l'Euribor è sceso sotto lo "0".

Per maggiori informazioni ed assistenza, potete scrivere a info@consumatoreinformato.it.

Corte di Appello di Milano - sentenza n. 2836/2022.

domenica 30 ottobre 2022

Centrale rischi: la segnalazione deve essere preceduta dalla comunicazione al consumatore

La segnalazione alla Centrale rischi della Banca d'Italia (o alle varie banche dati private) è circostanza tutt'altro che rara per il consumatore, ed anzi sono molti i casi di persone che segnalano all'associazione questo tipo di vicenda.

Abbiamo  già trattato la questione nel blog, chiarendo anche in cosa consiste l'iscrizione alla banca dati (clicca qui), e quando può essere importante che la banca rispetti i presupposti per la segnalazione del cliente.

Stiamo ponendo la nostra attenzione su una specifica vicenda, tutt'altro che rara, ove il cliente della banca non abbia pagato più rate del proprio debito  con la banca, e quest'ultima sia costretta a segnalarlo nelle varie banche dati previste per legge.

La banca segnalante deve, a tal proposito, avvertire il consumatore della sua prossima segnalazione alla Centrale rischi, informandolo delle rate pagate in ritardo e dandogli la possibilità di poter di saldare il debito.

E' uno dei requisiti che rendono la segnalazione legittima e rispettosa della legge, ed in particolare l'art. 125 del Testo Unico Bancario e delle successive comunicazioni di Banca d'Italia.

L'art. 125 comma 3 del TUB prevede, infatti, che la banca sia tenuta, prima di segnalare il cliente ad informarlo della sua prossima segnalazione presso la Centrale rischi della Banca d'Italia, così come ribadito con la Circolare n. 139 del 11 febbraio 1991 della Banca d’Italia, Capitolo I Sezione 1 paragrafo 4.

La banca deve inviare, quindi, una lettera con l'avvertimento rivolto al cliente della sua prossima segnalazione alla Banca d'Italia.

Ma cosa succede se non procede alla comunicazione preventiva verso il cliente? e questo tipo di comunicazione riguarda il solo caso di "segnalazione a sofferenza" od ogni tipo di segnalazione in Centrale rischi?

Il Tribunale di Napoli risponde a questi quesiti, premettendo che la segnalazione è regolare se rispettosa dei presupposti previsti dalla legge, i quali valgono non solo per le segnalazioni “a sofferenza”, ma devono trovare applicazione in tutte le procedure di segnalazione alla centrale rischi.

Ciò premesso, ogni tipo di segnalazione deve essere preceduta dalla comunicazione al cliente, proprio per consentirgli di poter saldare le rate arretrate e mettersi in regola.

E se non viene inviata tale comunicazione? il Tribunale di Napoli (in contrasto con alcune sentenze di altri giudici vedi qui) afferma che la mancata comunicazione comporta la invalidità della segnalazione alla Centrale rischi con obbligo di cancellazione in capo alla banca.

Tribunale di Napoli.

lunedì 12 settembre 2022

Promotore finanziario infedele: quando paga la banca?

Nella casistica è molto frequente il caso del promotore finanziario (oggi “consulente finanziario” o “private banker”) che, con artifici e raggiri, sottrae la disponibilità del denaro del cliente, integrando di volta in volta diversi reati (ad esempio la truffa, l’appropriazione indebita di somme del cliente, e via dicendo); questa sottrazione è facilitata dalla scarsa accortezza dei clienti, che aderiscono alle richieste poco ortodosse provenienti dai consulenti infedeli.  

In linea molto generale (vedi qui), la giurisprudenza ordinaria applica le due norme fondamentali in materia, gli articoli 31, comma 3, Testo Unico Finanziario e 2049 codice civile, fino a riconoscere la responsabilità oggettiva dell’intermediario per qualsiasi fatto del promotore finanziario che abbia causato un danno al cliente.

Di fronte ad una responsabilità oggettiva dell’intermediario, nella quale si ragiona sul fatto materiale e non sulla colpa, è dunque necessario approfondire il concetto di occasionalità necessaria: esso indica lo stretto legame che sussiste tra l’incarico affidato dalla banca al consulente finanziario e il fatto, anche illecito, di quest’ultimo. Se il legame tra il fatto e l’incarico permane, allora è possibile tenere la banca come responsabile solidale. 

Si potrebbe, a questo punto, anche affermare che la banca integri di un contatto sociale qualificato, che le imporrebbe di vigilare sul fatto materiale del promotore: ma resta pur sempre che la essa deve conservare una sfera di  dominio sui fattori che causano l’evento; altrimenti vi sarebbe uno scollamento evidente tra la posizione di garanzia e il fatto materiale.

In sintesi, la responsabilità or ora commentata sussiste: 

- se il danno è stato cagionato dal promotore nello svolgimento della propria attività;

- se la banca ha agevolato il promotore a cagionare il danno.

Tuttavia, anche se la protezione offerta al cliente è apparentemente così ampia, occorre che il consumatore presti estrema attenzione a come i rapporti col consulente si dipanano nella loro concretezza e materialità: almeno è questa la massima di prudenza che si ricava dalla pronuncia oggi in commento del Tribunale di Milano datata 21 luglio 2020. 

La circostanza che l’intermediario sia una figura remota a sfondo dei funambolismi del consulente finanziario non è sempre la garanzia di un’automatica “rivalsa” verso la banca, allorquando quando il promotore si dilegua con le somme distratte. 

Vediamo, più nel dettaglio, la vicenda, evidenziando proprio quegli elementi che, secondo il giudice meneghino, hanno portato addirittura ad escludere che il promotore effettuasse la gestione del patrimonio del cliente sotto l’egida della banca intermediaria. La vicenda, infatti, presenta gli elementi sintomatici di un rapporto di preposizione nella quale viene del tutto travalicata l’attività istituzionale del consulente finanziario nell’alveo della banca.  

Nell’arco di trent’anni il medesimo promotore ha gestito i capitali conferitigli dalla famiglia di un cliente della banca: dapprima quelli del padre e del figlio, che sul finire degli anni novanta hanno conferito ingenti capitali in effetti contanti ai fini di investimento finanziario da effettuarsi presso l’istituto di credito; quindi quelli del solo figlio, nel frattempo divenuto erede, il quale ha venduto gli immobili paterni e ha conferito le somme ricavate, sempre in effetti contanti, per rimpinguare il capitale destinato agli investimenti.  

Sennonché, quando il cliente ha manifestato il bisogno di ottenere liquidità, il promotore finanziario lo ha dissuaso a disinvestire le somme, poiché erano state tutte investite in operazioni a lungo termine su titoli esteri, il cui repentino disinvestimento avrebbe comportato delle ingenti perdite.

Peraltro, il rapporto di preposizione è stato proseguito anche dopo che il promotore finanziario aveva interrotto la collaborazione con la banca, sottacendo tale importante circostanza al cliente. Il rapporto è proseguito a titolo personale, in una cornice nella quale l’ex promotore, nonostante ulteriori solleciti da parte del cliente, non ha smobilitato tutti gli investimenti.

Soltanto in sede giurisdizionale è emerso che il promotore finanziario, tenendo due distinte contabilità, ha distratto diverse somme, riuscendo a fare registrare sul conto titoli del cliente (non quello della banca, s’intende) soltanto una minima parte degli strumenti finanziari

La restante parte, riferita invece ad imprecisati investimenti, né è mai stata registrata dalla banca né è mai stata rendicontata. Il cliente, infatti, non è stato in grado di dimostrare un solo ordine di acquisto di intestato alla banca, come pure un solo rendiconto ufficiale.

Anzi, le prove offerte del cliente consistono in rendicontazioni (o meglio, imprecise stime di valore) vergate dal promotore finanziarie in carta libera. A ciò si aggiunge che l’operatività del cliente è consistita nella consegna di denaro contante al promotore finanziario senza il rilascio di ricevute e in investimenti che non sono mai transitati dalla banca.

Le circostanze valorizzate dal giudice presentano concorrono ad escludere che la banca, pur essendo in una posizione di garanzia, avesse l’obbligo giuridico di attivarsi per impedire il fatto del promotore, il quale ha avuto la “diabolica” accortezza di separare le gestioni. Per di più, i conferimenti per gli investimenti sono avvenuti per effetti contanti o con assegni e, fatto determinante e aberrante, alcuni ordini di disinvestimento sono consistiti in richieste di ordini di bonifico a terzi per il pagamento di fatture passive della società amministrata dall’attore, come pure in assegni in bianco, consegnati da privati al cliente che, a propria volta, li ha versati in banca. 

Tribunale di Milano - Sez. VI^ Civ. sentenza del 20 luglio 2020

domenica 4 settembre 2022

Clausole vessatorie - non è sempre valida la doppia sottoscrizione

Ogni tanto vogliamo tornare a trattare l'argomento clausole vessatorie ex artt. 1341 - 1342 c.c., in quanto la materia non è così chiara, e quindi riteniamo ricordare alcuni principi già esposti in precedenza (vedasi qui).

Ecco perché la sentenza oggi in commento, pubblicata dal Tribunale di Torino il 21 maggio 2018 a conferma di un decreto ingiuntivo emesso a favore di una banca, è concisa nel puntualizzare come le clausole, se reputate onerose e vessatorie, vanno richiamate in calce ad un contratto, nel caso la prestazione di una fideiussione

Ben sappiamo che il Codice Civile, all’articolo 1341, considera come valide ed efficaci soltanto quelle clausole che siano state specificamente approvate per iscritto da parte del consumatore, la consueta parte debole del rapporto contrattuale. 

Altrettanto noto è che, a tali riguardi, non bastano alcuni formalistici rinvii al corpo del contratto: il consumatore si limiterebbe ad apporre acriticamente la propria firma sotto a clausole che, prese singolarmente, si rivelerebbero enigmatiche e confusive. 

Esauriti i cenni teorici, entriamo nell’argomento che interessa direttamente i nostri lettori. Il significato dell’avverbio “specificamente” di cui all’articolo 1341 codice civile – “specificamente approvate per iscritto” -, all’apparenza tanto lapalissiano, va spiegato. 

Anzitutto, l’avverbio si riferisce alla parola “approvato”: s’intende, cioè, che l’approvazione da parte del consumatore deve essere prestata soltanto, ed esclusivamente, dopo che il professionista ha richiamato la sua particolare attenzione sul contenuto della clausola. 

La Cassazione (sentenza 22984/2015, a cui fa riferimento il giudice ordinario) ha chiarito quali sono le modalità di richiamo che si reputano idonee a ottenere l’attenzione del consumatore. 

In particolare, il richiamo della clausola:  

- deve essere messo in calce, cioè in fondo, al formulario contrattuale (e, fin qui, nulla di nuovo); 

- deve riportare il contenuto della clausola già presente nel corpo del contratto. È sufficiente un breve riassunto del contenuto, ma è da escludere la mera indicazione del numero della clausola (ad esempio, formule così redatte “la parte contrattuale approva specificamente e per iscritto, agli effetti di legge, la clausola n. X (…) e n. Y (…) oppure il richiamo cumulativo delle clausole (un esempio: “il contraente approva, avendole lette e specificamente approvate, le clausole qui elencate: N. 1, 2, 3, n”); 

- se la legge, per quello specifico tipo contrattuale, prevede una forma scritta particolare (ad esempio, l’atto pubblico), allora si seguirà quello specifico onere formale. 

In definitiva, il consumatore può (e dovrebbe) diffidare di quelle modalità di richiamo che non gli consentono di intendere direttamente il contenuto del contratto e, qualora non comprenda il significato delle clausole, farsi esplicitare dal professionista il loro valore. 

Qui il provvedimento del Tribunale di Torino

domenica 3 luglio 2022

Digital wallet - Poste Italiane condannata a rimborsare il consumatore per i prelievi fraudolenti

Questa domenica torniamo a trattare un tema a noi caro, ossia la responsabilità di Poste Italiane per i prelievi fraudolenti avvenuti sul conto dei vari clienti a seguito di una attività di spoofing.

Ricordiamo che  Caller ID Spoofing (o solo spoofing) è una particolare tecnica di manipolazione dell'identità telefonica, attraverso la quale sul vostro display appare un numero di telefono di altri, al fine di contattare la vittima designata ed ottenere dati personali.

Il malfattore utilizza questo sistema con il fine di truffare il consumatore, attraverso utenze conosciute dal destinatario della telefonata, in modo tale che questi risponda alla chiamata e così  attivando il servizio di sollecitazione telefonica o, ancor peggio, un servizio a pagamento.

E' chiaro che questa tecnica si è sviluppata grazie alle nuove linee di  telefonia Voice over IP (VOIP), ossia attraverso il protocollo TCP/IP, evitando le linee telefoniche tradizionali.

Invero, questo fenomeno non è recente, ma si è sviluppato in modo rilevante solo negli ultimi anni, parallelamente alla nascita di nuovi servizi di telefonia mobile.

Nel caso affrontato dall'ABF, un utente aveva rinvenuto, nella pagina dell'operatore, un link che rimandava ad una presunta attivazione di un servizio di Poste Italiane.

In seguito, il consumatore riceveva delle telefonate di una persona che si palesava come consulente di Poste Italiane, il quale invitava il cliente ad installare Team Viewer Quick Support, attraverso il quale i truffatori riuscivano a carpire i dati personali del truffato e sottrargli delle somme di denaro dal conto di Poste.

Il consumatore si rivolgeva all'Arbitro Bancario Finanziario per chiedere il risarcimento del danno, assumendo che Poste Italiane non aveva adottato tutte le misure necessarie per evitare la truffa digitale.

Per la soluzione della controversia, l'arbitro ha richiamato le regole previste in questa materia ed in particolare il d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, modificato a seguito dell’entrata in vigore (il 13/01/2018) del D.lgs. 15 dicembre 2017, n. 218, di recepimento della direttiva (UE) 2015/2366 (c.d. PSD2) relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno. 

Le norme di riferimento (artt. 7, 10, 10-bis e 12) disciplinano il servizio di cui trattasi, prevedendo le tutele in favore dell'utente, proteggendolo dal rischio di utilizzo fraudolento degli strumenti di pagamento.

L'art. 10 grava sul prestatore di servizi di pagamento (Poste Italiane nel  caso di specie) l’onere di fornire adeguata prova “che l'operazione di pagamento è stata autenticata, correttamente registrata e contabilizzata e che non ha subito le conseguenze del malfunzionamento delle procedure necessarie per la sua esecuzione o di altri inconvenienti”.

Il secondo comma del citato art. 10 dispone che “l'utilizzo di uno strumento di pagamento registrato dal prestatore di servizi di pagamento non è di per sé necessariamente sufficiente a dimostrare che l'operazione sia stata autorizzata dall'utilizzatore medesimo, né che questi abbia agito in modo fraudolento o non abbia adempiuto con dolo o colpa grave a uno o più degli obblighi di cui all'articolo 7”.

Peraltro, all'intermediario viene data la possibilità di fornire adeguata prova volta a dimostrare che la frode sia stata posta in essere, con dolo o della colpa grave, dell'utente

Giova richiamare, l’art. 12, comma 2-bis, d.lgs. n. 11/2010, norma che addebita il danno derivate dalla frode al prestatore di un servizio di pagamento, laddove quest'ultimo non abbia richiesto l’autenticazione forte “Salvo il caso in cui abbia agito in modo fraudolento, il pagatore non sopporta alcuna perdita se il prestatore di servizi di pagamento non esige un'autenticazione forte del cliente. Il beneficiario o il prestatore di servizi di pagamento del beneficiario rimborsano il danno finanziario causato al prestatore di servizi di pagamento del pagatore se non accettano l'autenticazione forte del cliente”.

Le norme previste in materia di sistemi di sicurezza conformemente alle indicazioni della Direttiva Europea Payment Services Directive (PSD2), hanno il fine di contrastare in modo ancora più efficace possibili tentativi di frode, anche se appare chiaro che la tecnologia apporta la migliore tutela possibile per il consumatore, mentre il diritto può solo parzialmente salvaguardare gli interessi del consumatore.

Nel fattispecie oggetto del giudizio dell'ABF, Poste Italiane non ha fornito prova di aver adottato tutte le misure di tutela, violando il citato art. 10.

Qui la decisione dell'ABF.

sabato 25 giugno 2022

Servizi finanziari on line: arriva la proposta comunitaria per tutelare gli investitori

In materia di intermediazione finanziaria, l'investimento operato in via telematica rappresenta la modalità esecutiva più adottata dai consumatori e la Commissione europea sta lavorando negli anni con il fine di incentivare il miglioramento dei servizi finanziari offerti nel mercato unico, con maggiore tutela dei consumatori.

Una nuova proposta di legge è oggetto di discussione in ambito comunitario e riguarda i servizi finanziari a distanza, il cui fine è quello di salvaguardare la tutela dell'investitore, ma anche rendere più snello il mercato.

La disciplina del diritto di recesso, esercitabile nel termine di quattordici giorni, viene disciplinata in modo più aderente alla realtà telematica, con la previsione di un apposito bottone per l'esercizio del diritto da parte del consumatore.

Ed anche l'informativa precontrattuale dovrà essere più completa e trasparente, e gli intermediari finanziari non potranno ritenere soddisfatto il proprio obbligo informativo con un semplice "point and click".

Anche la visualizzazione delle informazioni dovrà essere più chiara ed evidente, consentendo all'investitore di poter comprendere in modo completo tutti i dati, rischi e benefici connessi all'investimento finanziario, garantendo anche la conoscenza dei costi occulti o i rischi connessi ai servizi finanziari. 

domenica 3 aprile 2022

Polizza unit linked. Corte di giustizia precisa gli obblighi informativi

Torniamo a trattare, questa domenica, la vendita di prodotti assicurativi e/o finanziari e gli obblighi informativi che gravano sull'operatore professionale.

La Corte di giustizia è stata a chiamata a valutare l'adempimento degli obblighi di legge in una controversa tra dei consumatori polacchi che avevano acquistato polizze «unit–linked» attraverso una compagnia assicurativa.

Il contratto prevede l'obbligo da parte dell'aderente di pagare il premio periodico a fronte del pagamento di una determinata somma di denaro nel caso di morte o sopravvivenza al termine del periodo di assicurazione. 

La somma versata (premio) viene investita in quote di un fondo di investimento finalizzato all'acquisto di strumenti finanziari secondo la "politica" stabilita al momento della creazione del fondo. 

In generale, con la polizza «unit–linked», quando maturano le condizioni per il suo pagamento in favore del beneficiario (ad esempio, morte dell'assicurato), la somma riconosciuta a quest'ultima è proporzionale ai risultati ottenuti dal fondo comune di investimento e alle quote investite.

Nel caso di specie, il fondo comune aveva accusato significative perdite, tant'è che i consumatori si erano rivolti all'autorità giudiziaria per chiedere il rimborso della somma versata contestando alla compagnia assicurativa di non averli adeguatamente informati in merito alla natura della polizza, alle caratteristiche e dei rischi del prodotto assicurativo.

La vicenda finisce davanti alla Corte di giustizia, chiamata dal tribunale polacco a precisare il contenuto dei doveri di informazione introdotti in materia con la Direttiva UE 2002/83.

La norma in parola, prevede che prima della conclusione del contratto «unit–linked», il contraente debole debba ricevere tutte le informazioni idonee a fargli effettuare una scelta consapevole del prodotto assicurativo.

La norma comunitaria impone all'impresa assicurativa una serie di obblighi informativi da dover comunicare al cliente sul funzionamento del contratto e i diversi scenari.

Le informazioni devono essere fornite in modo trasparente, preciso e chiaro, con modalità idonee a realizzare il fine previsto dalla norma comunitaria.

Tali informazioni devono riguardare sia il fondo comune ove i denari dell'assicurato vengono investiti, sia la contropartita prevista, sia la destinazione degli acquisti di prodotti finanziari perseguiti con la «unit–linked».

La Corte osserva, quindi, che l'omissione delle informazioni contenute nella direttiva 2002/83 costituisce grave omissione ingannevole idonea a configurare una responsabilità pre contrattuale e contrattuale dell'operatore professionale.

Sentenza Corte giustizia UE - C-213/2020.

martedì 1 marzo 2022

Mutuo indicizzato - la prova può arrivare anche dal provvedimento dell'Antitrust

Abbiamo già trattato la questione mutuo indicizzato al franco svizzero, evidenziando le diverse clausole vessatorie sottoposte al cliente, così come accertato dai vari giudici, secondo i quali il cliente non dispone, sin dall’inizio, di dati e strumenti di calcolo per prevedere quanto dovrà rimborsare, in punto interessi, alla banca. 

Uno degli istituti di credito che più hanno collocato questo tipo di finanziamenti, Barclays, per anni si è limitata a predisporre nelle proprie condizioni generali di contratto, nei propri moduli, modelli e formulari delle clausole - e tra queste il famigerato articolo 7 - che vincolano l’importo degli interessi dovuti alla banca alle oscillazioni della valuta svizzera. 

La clausola, di per sé, non è di difficile comprensione: gli interessi vengono rimodulati, sulla base dell’andamento del tasso di cambio tra Euro e franco Svizzero, fluttuante dal 2015; più difficile, se non arduo, diventa predeterminare, valutare e ponderare quali sono gli effetti economici di tale clausola sul consumatore.

Per rispondere a tali attese, il consumatore deve essere messo per forza nelle condizioni di conoscere quale formula matematica, e avere a propria disposizione ex ante i dati da inserire in quella formula. 

Purtroppo, non soltanto la Barclays si è sempre guardata bene dal fornire questi importantissimi strumenti al consumatore, ma anche molti tribunali italiani, con quel formalismo che rende questa previsione farraginosa, affermano che è sufficiente conoscere la clausola, e non valutarne gli effetti. 

Tale indeterminatezza è stata presa dalla Barclays, ben consapevole dei vantaggi rappresentati dal libero andamento del tasso di cambio, come pretesto per imporre di volta in volta al cliente rivalutazioni calcolate a propria esclusiva convenienza. 

Non ci dilungheremo tanto su questo argomento, perché sono anni che diciamo che queste clausole, per costante giurisprudenza comunitaria, sono vessatorie se non sono sufficientemente chiare e predeterminate; riprova né è che la Cassazione, nella sentenza oggi in commento, ha nuovamente esplicitato il principio secondo cui: “un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto” deve essere “posto in grado di comprendere il funzionamento concreto della modalità di calcolo di tale tasso (quello indicizzato, s’intende) e di valutare in tal modo, sul fondamento di criteri precisi e intelligibili, le conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una tale clausola sulle sue obbligazioni finanziarie”. 

Piuttosto, è da valorizzare il valore che la Cassazione, questa volta, ha attribuito al provvedimento dell’Antitrust italiano (l’AGCM) che, tra le attribuzioni che annovera, può dichiarare la vessatorietà delle clausole inserite nei contratti tra i professionisti e i consumatori, quantunque abbia funzioni di public enforcement che trascendono quelle delle parti private (che, di norma, adiscono il giudice ordinario per far valere i propri diritti).

L’Antitrust, non nuova in questo tipo di esperienze, già nel 2018 aveva spiegato che, se non si esplicita il meccanismo di calcolo, non si pone il consumatore nelle concrete condizioni di formulare la propria scelta (vedi qui). 

Sebbene l’Antitrust non sia alla medesima stregua di un giudice civile, le sue deliberazioni, a detta della Corte di Cassazione, costituiscono fonte di prova privilegiata “in un giudizio di fatto espresso sul tenore di un documento contrattuale, valutato a monte nella sua potenzialità di adeguata capacità esplicativa per un comune contraente, versante in posizione di debolezza e di asimmetria informativa, al fine di porlo in condizione, ciononostante, di assumere le proprie decisioni con prudenza e in piena cognizione di causa e operare così scelte consapevoli e corrette”.

Il provvedimento dell'Antitrust può, in ultima istanza, divenire indizio idoneo a determinare il modus operandi del professionista nel rapporto con il consumatore oggetto di decisione da parte del giudice, e nel caso concreto attestare la carenza informativa che ha caratterizzato la vendita del mutuo indicizzato.

Qui di seguito, la sentenza n. 23655/2021 della Cassazione.

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